Gli occhi neri e intensi di Marianne Golz mi guardano dalla foto che ho amato di più. Quegli occhi mi sono entrati dentro otto anni fa, come la sua storia, in un bar di Porta Palazzo a Torino, mentre Marcella, la mia amica storica mi parlava dell’ultimo libro a cui stava lavorando. Ancora una storia di donne.
Marianne Golz, una cantante d’operetta viennese che viene condannata a morte e ghigliottina a Praga dai nazisti nel 1943. La storia di questa donna ho provato a raccontarla nel 2007 in un documentario, “La vera storia di Marianne Golz”, che adesso è possible vedere on line sul portale www.onthedocks.it.
Marianne è una donna bella, forse capricciosa, elegante, volitiva. Una donna che conosce l’amore (tre mariti, due divorzi), una donna che lavora (cantante prima, giornalista poi), una donna abituata a maneggiare il denaro, una donna che viaggia. Insomma una donna come una delle mie amiche avvocato, architetto o medico. Poi un evento esterno brutale: l’avvento della burocrazia nazista. E la vita cambia. Bisogna traslocare, far scappare tuo marito perché lui è ebreo, tu no, e quindi puoi aspettare. E poi ti guardi intorno e vedi che ci sono altri amici o conoscenti o sconosciuti che puoi aiutare, e lo fai. Con i tuoi mezzi, a casa tua, chiedendo aiuto a tua sorella, usando la tua intelligenza, corrompendo con il denaro e con lo charme i burocrati della Gestapo.
Marianne è una donna forte e fragile allo stesso tempo. Non è un’eroina tutta d’un pezzo. Ha paura, spera, si illude, piange, balla sulle tavole di legno della cella, si pettina e chiede il filo nero per rammendare le calze. Marianne è una donna come noi. Come noi vorremmo essere. Una donna fortunata, consapevole e anche un po’ egocentrica, ma che al dunque di fronte al Moloch oppone resistenza. Si mette in discussione e decide di vivere fino in fondo come una donna libera, anche quando la libertà le viene ingiustamente negata. La sua storia ci riguarda perché potrebbe accadere a una di noi. La sua storia ci appassiona perché troppo violenta e dolorosa.
Marianne non è un soldato Ryan, né una Giovanna D’Arco. Ma una donna impossibile da racchiudere in una sola identità. Difficile da etichettare nell’epopea eroica. Marianne è la dimostrazione che ognuna di noi può scegliere la libertà fino a morire, oppure la resa, per paura di mettersi in discussione, di perdere il marito e le certezze acquisiste (come la sorella Rosi).
Marianne è una donna fortunata, affascinante, ricca, colta. Ha un marito, una bella casa, è piena di vita e ottimista. Poi Hitler sale al potere. Marianne diventa antinazista senza un preciso motivo politico. Per lei come per i resistenti tedeschi della Rosa Bianca si è parlato di Resistenza esistenziale: “resistenza esistenziale è stata definita, perché chiama in causa le risorse fondamentali dell’essere umano, quelle interiori, relazionali e spirituali” (Marcella Filippa, storica).
Marianne non è stata una semplice vittima. Ha combattuto il regime nazista con tutte le sue risorse, tra queste la sua intelligenza, la sua eleganza e il suo fascino.
Mentre leggevo le sue lettere dal carcere (“Il grande Giorno”, Città Aperta Edizioni, 2003)
ripensavo a mio nonno (classe 1898) che nel 1943 da carabiniere scortava i prigionieri per gli interrogatori dal carcere di Regina Coeli a Roma al tribunale. E la notte la figlia (mia zia) lo sentiva piangere dalla sua camera da letto per quello che aveva visto e sentito durante il giorno. Mio nonno quando ero bambina mi ha iniziato all’amore smodato per le storie, quando mi raccontava come se fossero delle favole i canti dell’Inferno di Dante: Paolo e Francesca, Ugolino e Manfredi, Farinata. Mia nonna lo rimproverava perché mi faceva piangere con quelle storie, ma io lo pregavo di non smettere. Credo sia iniziata così la mia necessità di raccontare le storie.
di Monica Repetto