“In pratica ci è venuto a mancare il racconto cinematografico degli ultimi venti anni di storia italiana …. Tutto quello che ha riempito le pagine dei nostri giornali (…) non è stato ritenuto (…) argomento abbastanza interessante per farne dei film”. Parto con un mio montaggio di una frase dell’articolo Cinerimozione di Angelo Pasquini su Alfabeta2 n 4. La penso così da molto tempo. Per questo rimando alla lettura dell’articolo e cerco di andare oltre. Un dettaglio: quando scrivo “film” intendo cinema documentario, docufiction, videoarte, rutti e scorregge con immagini e suoni. Insomma tutto quello che riproduce in visione un racconto.
È venuto a mancare il racconto di questi incredibili anni, perché non accettiamo il berlusconi che siamo sempre stati. E che continueremo ad essere. Parla per te, è l’eco in lontananza. No. Adesso mi sono rotto le scatole. Ho assistito a riunioni di autoroni e autorini. Ho parlato e frequentato nel poco tempo “libero” che mi permetteva la mia vita, salottini di autorini. E tutte le volte che decollava la discussione intorno o sotto la berlusconizzazione del bel paese mi veniva da ridere. Eravamo stati noi, anche noi, i creatori di quel bell’imbusto. No, il salotto era sicuro che la colpa andasse cercata giù, giù nella via rumorosa e inquinata, tra il traffico serale. Rumore che nel salottino non arrivava, ça va sans dire. E siccome non accettiamo di avere contribuito (tutti noi autorini e autoroni) alla presa e tenuta del potere di monsieur Berlusconi, non riusciamo a raccontarlo. E preferiamo digredire. Allontanarsi dal soggetto principale del discorso. Ci vedo della volontarietà. Quantomeno del dolo inconscio. Digressioni anche di qualità. Roba fina. Storie di deboli, di marginali. In tempi in cui la prepotenza e la rimozione vanno fortissimo. In tempi in cui il capitalismo arriva al climax della sua narrazione. In tempi di capitalismo “macchina di distruzione dei rapporti sociali, dell’ambiente, delle risorse naturali, di logoramento e di svuotamento degli istituti della democrazia e della convivenza”. (presentazione del libro il grande saccheggio di Piero Bevilacqua, dal sito di Fahrenheit). Be’, non è che vorrei rivedere il cinema politico anni Settanta (anche se, anche se …). Tantomeno auspico meno film con storie di marginalità. Desidererei riuscire a scrivere e vedere più storie che raccontino questo incredibile presente italiano. Augurando lunga vita a storie “verso la redenzione”, facciamoci del male con storie sulla nostra dannazione quotidiana. Queste storie “verso la redenzione” sono e saranno fondamentali. Fondamentali anche per salvarsi la pelle. E un discreto modo per guadagnarsi l’attenzione. Deformi non tanto nel corpo quanto nella marginalità della vita. All’inizio degli anni Novanta sono stato a girare per il gruppo Abele sul camper che due volte alla settimana scambiava siringhe usate con nuove e offriva ascolto e tè ai tossici. Era la mossa sul territorio a seguito della scelta teorica di limitare i danni dovuti al consumo di stupefacenti. Sono stato in quel camper per sette mesi. Ho imparato a mie spese una cosa: mai mostrare quelle immagini fuori dal loro naturale utilizzo (servivano per istruire i volontari che sul camper operavano).
Quelle immagini erano oscene. Erano fuori dalla scena. C’era di che fare del verismo, a quei tempi, inedito. Naturale che questa regola debba valere solo per me. Guai a estenderla. Ma posso cercare altri sostenitori. Il valore sociale del cinema è un fatto. Ma prima o poi bisognerà anche farci qualche ragionamento su questo benedetto valore sociale. A questo punto so che dalle valli lontane arriva il suono della parola “necessità”. Ci è necessario fare quel filmetto o filmone. Mi è necessario fare quel documentario. L’ultima occasione in cui il termine “necessità” brillava con generosità fu nelle pagine de “la repubblica” dedicate a “il caimano” di Nanni Moretti. Le altre apparizioni di “necessità” le ho mancate. L’ho usata anche io quella parola. Però evito di leggermi. Per vergogna. Ma necessità di cosa? Mettiamola così: ci deve essere una situazione caratterizzata dall’urgenza di provvedere. Provvedere a cosa per noi autoroni e autorini? Perchè ci è “necessario” raccontare a mezzo di film? Non credo alla necessità ontologica. Credo alla necessità dell’intestino. Credo alla mia necessità di esserci e di riesserci. Va be’, accetto repliche come: ridicolo autoaccusarci, odora di cattolicesimo rappreso, ridicolo battersi il petto. Pazienza, se ne sentono tante. Quello che non fiata è “la voce fuori dal coro”. Tutti dicono e fanno quello che ti aspetteresti da loro. La logica dello storytelling ci guida. Un bel protocollo che non prevede deroghe. Provo con altri termini. L’Egitto insegna, ma era sufficiente conoscere un po’ la storia dell’occidente. O si prende la piazza e la si tiene fino alla fine, o ci si ingegna con il cervello. Ovvero si cerca di commettere meno errori possibili. Limitare i danni. Uno degli errori è agire secondo le aspettative. Esempio: indignarsi. E poi indignarsi. Senza mai spiazzare l’avversario. Soprattutto mai cercare e dirsi la verità. Contarsela che la contemporaneità è negoziare su testi dati. Sulle storie apparse. Sulle narrazioni in voga. Sui resoconti dei quotidiani. Al caldo delle proprie silenziose dimore. Già perché abbiamo speso un sacco di soldi per conquistare e rimettere a nuovo quel fantastico immobile sito in zona già degradata, ora quasi di lusso, anche per l’intervento nostro e dei nostri amici. E giù a godere dell’esclusività. Stasera ho tutto quello che mi serve. Cena con giovani ribaldi. Dopo cena con giovani intellettuali. E bicchiere della staffa con chi so io. Fanculo, fanculo, fanculo. Ho mangiato merda per tutto questo. non voglio immaginare me indignato in un rumoroso alloggio popolare. Intrappolato dal bisogno potrei non essere più indignato. Anzi è certo: mi posso permettere l’indignazione solo dal mio immobile sito in zona già degradata. Anche il mio ragionare si è degradato. Vado alla conclusione. È che il benessere democratico, diffuso, ha portato i culi migliori al caldo e ha lasciato fuori i culi rancorosi, gli infelici, i non riconciliati, i perdenti. Ora i culi migliori, si sa, quando sono al caldo fanno quello che possono. Il tepore seda le urla dentro e fuori. Possiamo pretendere un urlo fuori dal coro dai culi al caldo? Non possiamo. E lo scrivo con umana partecipazione alla loro lacerazione. Con i migliori di noi impediti all’azione nei loro immobili siti in zona già degradata, i tanti che restano non è che possano chissà quali miracoli. La verità (quella ontologica) sarà fuori dalla nostra portata per tutto il ventunesimo secolo. Limitiamoci a contenere il danno.
Pietro Balla, regista di Operai , Thyssenkrupp Blues, Radio Singer